Attimi in viaggio - Racconto

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Crediti: Sunciti_Sundaram

Un gesso bianco tra le dita del tempo e una lavagna nera di fronte.
Uno straccetto nelle mani dello spazio e la stessa lavagna a qualche centimetro.
Dieci minuti di ritardo in una piccola stazione di provincia, un quadrato irregolare di sconosciuti inchiodato su un ordinario vagone di treno. Dieci minuti, il tempo per prepararsi un tè caldo; dieci minuti, il tempo per decidere se prepararlo solo per se stessi o invitare un amico e comporre il suo numero di telefono.
Gessetto e straccio per scrivere e poi cancellare; tempo e spazio per vivere e poi dimenticare.
Ad uno dei quattro vertici del quadrato c’è una ragazza sui vent’anni, un libro d’arte tra le mani, gli occhi castani che scrutano irrequieti la staticità del paesaggio esterno. In attesa.
Il piede sinistro è apparentemente immobile, quello destro si muove al ritmo di una musica non accordata. Batte irregolare sul pavimento grigio opaco e segna il tempo dando forma sonora allo spazio.
Il maglione viola le scivola dispettoso sul polso, tenta di nascondere le lancette dell’orologio, i secondi e i minuti che il suo sguardo evita impaziente.
Celeste, punto A del quadrato.
Punto B: due sedicenni, ragazzine in jeans a vita bassa e maglietta sopra l’ombelico, si lamentano a gran voce tra il bip di un sms inviato e di uno ricevuto, a tenerle unite gli auricolari di un lettore CD che condividono. Arianna e Federica, punto B del quadrato.
Punto C: una giovane madre e il figlio di quattro anni.
Punto D: un anziano signore che sporge la testa fuori dal finestrino borbottando sulle condizioni del viaggio, e davanti a lui una donna sui trent’anni, vestita con eleganza, una penna e un taccuino ormai logoro tra le mani.
Celeste, Arianna e Federica; Eleonora, Fabrizio, il signor Giulio e Sofia.
Quattro vertici di un quadrato dai lati invisibili.
Celeste chiude il libro, due dita tengono il segno, aspettano di convincersi a riporlo nella borsa.
D’improvviso si sente gracchiare una voce da un altoparlante, il suono è vagamente deforme ma conforta: “Il treno per Serra delle ore 14.15 è in partenza dal secondo binario.” Una breve pausa. “Il treno per Giustiano delle ore 14.17 arriva e parte dal primo binario.”
Celeste osserva le persone sulla banchina voltarsi in direzione del treno in arrivo. Finalmente anche il loro può ripartire. Si sente un fischio mentre il paesaggio fino a quel momento immobile riprende lentamente il cammino, la marcia, e quindi la corsa.
Le due sedicenni spengono il lettore CD ed iniziano a prepararsi per scendere alla prossima stazione. Si mettono d’accordo per vedersi qualche ora più tardi, per studiare insieme, per chiacchierare tra amiche e per continuare a chiudere il resto del mondo fuori dalla porta della loro immaginazione.
L’anziano signore si risiede brontolando, deve avere circa sessant’anni e i pochi capelli che gli sono rimasti, pensa Celeste con una punta di ironia, sembrano averlo fatto più per uno strano scherzo del destino che per solidarietà. Sofia, la giovane donna di fronte a lui, non pare accordargli eccessiva importanza: fissa il taccuino e giocherella con la penna tra le dita.
Il contrasto tra l’impeccabilità del tailleur blu e la peculiarità del taccuino in quanto accessorio potrebbe incuriosire un osservatore attento, ma le dita di Celeste sono ancora tra le pagine del libro mentre osserva gli altri tre punti del quadrato senza scoprirsene particolarmente interessata.
Durante l’attesa obbligata nella stazione di Argane, il piccolo Fabrizio ha dato sfogo all’impazienza di tutti alzandosi e lasciandosi ricadere in continuazione sul sedile; ora che il treno ha ripreso la sua lenta marcia il piccolo è un vulcano di domande:
“Mamma, perché gli alberi non ci seguono? Gli stiamo forse antipatici?”
“No, Fabrizio, gli alberi sono fermi, siamo noi a muoverci”, gli spiega bonaria.
“Mamma, perché la nonna non è venuta con noi?”
“Perché la nonna abita a Giustiano, ma vedrai che verrà a trovarci molto presto.”
“Mamma…”
Il treno comincia a rallentare, la stazione di Elsiano è a qualche centinaio di metri. La porta dello scompartimento si apre, due ragazzi attraversano il vagone. Celeste si volta, le due sedicenni si voltano, la giovane madre, Fabrizio e il signor Giulio si voltano, uno sguardo lanciato di sottecchi, curiosità superficiale mista ad indifferenza e incostanza. Solo Sofia non si lascia distrarre dal movimento, i suoi occhi sono puntati sul taccuino e la mente è impegnata in inutili conversazioni tra pensieri.
I ragazzi proseguono verso il vagone successivo, Arianna e Federica si alzano a loro volta. Il bambino riversa nuovamente la sua curiosità nelle domande e il signor Giulio si alza anche lui per scendere.
Il quadrato si è spezzato. Celeste chiude una volta per tutte il libro e lo ripone nella borsa, la prossima fermata è la sua. Sorride mentre immagina l’autunno implacabile della vita chiamare all’appello gli ultimi cocciuti reduci sulla testa del signor Giulio, e si volta serena verso il finestrino. I suoi occhi castani incrociano due occhi neri che passano, rapidi e silenziosi, in quel momento.
Senza volerlo Celeste si ritrova a sorridere ad uno sconosciuto, ma subito distoglie lo sguardo infastidita: quel sorriso non era rivolto a qualcuno.
Il treno riparte e, protetta dallo spazio che avanza e separa, Celeste si lascia nuovamente catturare da quel profilo estraneo, le pare di riconoscerlo in uno dei ragazzi intravisti qualche attimo prima. Deve solo assicurarsi di guardarlo senza essere notata.
Non sa perché i suoi occhi si siano soffermati su quella figura, un punto dai contorni ormai sfocati, e non se lo chiede neppure finché la stazione di Elsiano è già lontana e la successiva è sempre più prossima. Niente di rilevante, nessun motivo per ricordarsi uno stupido nome di una stupida stazione. Elsiano.
Celeste scende, il vagone si è ormai quasi svuotato.
Il treno riparte.
Due fermate ed è il capolinea: la stazione di Serra. Il treno si svuota del tutto e già si riempie, pronto per incominciare un nuovo viaggio.
Sofia è di casa al capolinea. Pochi minuti ed è rientrata. L’elegante tailleur lascia il posto ad una tuta anonima. Sofia si lascia sprofondare nel divano e accende la televisione. Ha una vaschetta di gelato in grembo e un cucchiaino da immergere nel freddo cioccolato misto a crema; nell’altra mano il telecomando, compagno inseparabile.
Ancora una piccola porzione di gelato da far sparire tra le sue labbra e poi Sofia decide di rimettere il coperchio alla vaschetta ed alzarsi. Ripone il gelato nel freezer e getta il cucchiaino nel lavabo.
Si tuffa nuovamente a sedere sul divano, annoiata. Prende il telecomando e cambia canale. Niente, niente, niente. Stizzita spegne il televisore e rimane a fissare lo schermo nero.
Rifugge il divano e si ritrova sul balcone.
Non è una bella giornata, non c’è il sole, non sta piovendo, ci sono solo tante nuvole grigiastre che rendono fastidiosamente luminoso l’ambiente circostante.
Un movimento inatteso cattura la sua attenzione: nell’orto al di là della strada sterrata i coniugi Berti sono chini, intenti a togliere le erbacce. Sofia li osserva indifferente.
La signora Berti raddrizza la schiena posandosi le mani sui fianchi mentre una leggera smorfia di dolore le attraversa il viso raggrinzito dall’età. Sofia immagina i suoi corti riccioli bianchi ricadere sulla fronte imperlata di delicato sudore.
Il marito si raddrizza a sua volta e si passa un fazzoletto sulla fronte. Sofia lo vede voltarsi verso la moglie, scorge il suo profilo e una fitta d’invidia la coglie alla sprovvista.
Lui posa una mano sul braccio di lei e le dice qualcosa. Lei scuote la testa senza convinzione.
Poi un sorriso si forma sulle sue labbra, immagina Sofia, e gli risponde che tra poco sarebbe andata a preparare del tè per entrambi.
La signora Berti scoppia in una risata. Sofia non se lo aspettava e la fitta di invidia si fa più acuta. Sta forse invidiando quei due vecchi?, si chiede incredula. Lei? Giovane, con una vita di promesse davanti? “Promesse…”
Il signor Berti sussurra qualcosa alla moglie e poi, insieme, lasciano l’orto per rientrare in casa.
Sofia li osserva scomparire dietro il cancelletto all’altro lato della strada.
Ora lei si metterà a preparare il tè e lui prenderà le tazze, e lo zucchero, e il limone, e il loro amore. Lei aspetterà che l’acqua bolla e poi la verserà nelle tazze.
Sofia rientra in casa: una casa vuota. Un televisore spento. Una vaschetta di gelato a metà nel freezer. E un ricordo. Un ricordo in più da dimenticare.
Sospira amareggiata. Avrebbe potuto telefonare a Elena, o a Silvia o a nessuno perché non c’era qualcuno che desiderasse sentire in quel momento. Senza neanche accorgersene si ritrova davanti alla credenza. Apre un’anta e prende una bustina di tè dalla scatola. Riempie il bollitore di acqua e accende il fuoco. Appoggia lo zucchero e una tazza sul tavolo.
Prende un CD tra quelli che ha collezionato e lo inserisce nello stereo. Nella stanza si diffonde una melodia malinconica di ombra e luce, la sinfonia del vuoto che tenta di colmare se stesso.
Il bollitore inizia a fischiare, Sofia raggiunge i fornelli e spegne il fuoco. Con una presina si versa nella tazza l’acqua, che a contatto con la bustina di tè comincia colorarsi di un giallo opaco. Risistema il bollitore, si siede sullo sgabello e soffia su quello specchio liquido color ambra per raffreddarlo.
La musica le tiene compagnia mentre beve un tè che in una situazione diversa non si sarebbe mai preparata.
Chiude gli occhi e li riapre lentamente. Le mani ancora avvolte attorno alla tazza ormai tiepida.
Sorseggia l’ultimo dito di tè e si volta verso il balcone, verso l’immobilità esterna. Lontano da quella che si porta dentro.
Immagina una nuova vita, un nuovo paesaggio, nuove persone. E si immagina là fuori a sorridere beata, senza alcun desiderio di grandi premi o ricompense.
Afferra una penna, il taccuino consumato che porta sempre con sé e inizia a scrivere.
«Un sorriso che non è il mio. Uno sguardo, occhi intensi diversi dai miei. La tua pelle, mani, viso, una luce che non può essere mia. Ieri ti ho visto sorridere, parlavi con un tuo amico, i tuoi occhi azzurri incontravano volti anonimi di cui non ti saresti più ricordato. Non eri la stessa persona, non ti ho quasi riconosciuto. Avevo mai notato quanto neri fossero i tuoi capelli? E dov’era finita quell’opaca bianchezza che avevo sempre creduto di riconoscere anche nella mia stessa pelle?
A qualche metro, inconsapevole della mia presenza, camminavi sicuro di te.
Ho provato l’istintivo ribrezzo di chi non riconosce più se stesso e l’inconsapevole dolcezza di chi ha riconosciuto l’altro.
Eri lontano, il tuo sorriso, il tuo sguardo, la tua vita. Ho provato il vuoto di non riconoscermi più in te e poi il vuoto di te.
Ho sempre saputo che eri l’altro, lo sconosciuto, una terra straniera in cui ero capitata, di passaggio, senza riuscire a sentire il sapore di casa. Il mio sapore. Col desiderio di sentire il tuo. Volevo me stessa e ho cercato te. Ho trovato me stessa e ho voluto te.»
Con un gesto di stizza Sofia traccia due righe nere sui pensieri appena scritti, strappa il foglio dal taccuino e lo straccia. Certe cose non valgono la pena di essere ricordate, pensa con amarezza.
Il tempo scrive e lo spazio cancella. Dove c’era un inizio, ora c’è una fine. Dove si pensava ci fosse una fine, è nato un nuovo inizio.
Celeste torna a casa e si rifugia nella propria stanza. Le sue mani ispirate tracciano contorni decisi e leggeri. Il foglio intonso si colora lentamente di grigio, bianco e nero, chiaroscuri di emozioni e fuggevoli ricordi.
Sa che gli attimi non durano, che le emozioni si dimenticano, ma se il tempo cancella, lo spazio aiuta a ricordare.
Sullo sfondo i contorni di una stazione e, in primo piano, quelli di un profilo, due occhi neri, l’alito di un istante.
Sofia fa per gettare lontano il foglio, esita, lo riapre incerta, le parole danzano nel loro abito nero, non si vergognano di se stesse, non disprezzano il loro destinatario e amano le emozioni che suscitano. Ma Sofia rifugge le emozioni che danzano sterili nella sua memoria.
La lavagna del tempo e dello spazio è nera, immacolata nella sua oscurità. Profumata di silenzio concede opportunità e occasioni: di accettare e amare, di vivere intensamente o dimenticare.
Il treno ha già ripreso il suo viaggio, cammina, marcia e infine corre, il panorama non cambia, da sempre i suoi occhi sono quelli di passeggeri frettolosi. Gli attimi fuggono e le emozioni si perdono.
Celeste ha riposto il suo album da disegno. Sofia ha abbandonato il foglio stropicciato sul tavolo in cucina. C’è un libro d’arte che deve essere studiato, i lavori di casa da svolgere, la palestra alle sei e mezza, una pratica da sbrigare per il giorno successivo.
E c’è, su quella lavagna ancora scura, immaginata o sognata, la breve fugacità di un attimo e l’agra paura di farlo durare.

Info autore

Scritto da Shiningarden, 2006