L'uomo nero - Racconto

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Crediti: Magdalena Roeseler

L'uomo nero ha sempre avuto mani vanitose, ciondolavano stanche all'inizio, stremate dalle fuliggine e dagli acidi che gli corrodevano la pelle fino alle ossa. Di notte però cambiavano, alla luce della luna gli sembravano di nuovo belle, con armoniche dita dipingere paesaggi sempre verdi, di quelli che non conoscono stagioni, se non quella che risponde ogni giorno con la vita alla morte pressante di ogni sogno colpito a morte.
Il mattino come una ruota sempre uguale ricominciava identico, i minuti scanditi da azioni meccaniche. Cominciava in bagno con l'acqua che doveva svegliarlo da un sonno troppo corto e terminava con il chiudersi in un cappotto sottile, troppo leggero da sopportare, per un freddo d'aria che lo soffocava di polvere e ghiaccio.
Aveva preso l'abitudine di contare i suoi passi, guardava le sue orme tracciare un percorso che, girata la testa, gli recava conforto: stava ancora camminando, era ancora vivo e quelle tracce erano testimoni di un esistenza vissuta nel vuoto dei fumi che macchiavano il suo volto fino a nascondergli la faccia.
Aveva tre figlie femmine, la più piccola non riusciva a guardarla, perché da sempre desiderava un figlio maschio nell'illusione di sentirsi eterno in un cognome che gli sarebbe rimasto fino alla fine dei suoi giorni.
Ma Dio non aveva mai ascoltato i suoi desideri.
Gli aveva tolto il padre in giovane età, e la sua infanzia l'aveva trascorsa sui tetti delle case a lanciare molliche di pane ai piccioni che invadevano le strade. Ricordava ancora con stupore le grandi navi che tagliavano il mare, cercando di essere un bel marinaio che silenzioso corteggiava l'unico amore possibile, il mare.
Le sue giovani mani sapevano raccogliere ogni suo dono, lo sfamavano e lo riempivano, le guardava scintillare nell'acqua forti nelle prese, audaci nei movimenti. Quanti sogni, bellissimi , perché semplici, realizzabili perché umili.
Ma il destino come cattivo antagonista lo aveva privato di ogni cosa, lasciandogli solo bocche da sfamare e un lavoro che con il tempo gli andava rubando ogni entusiasmo: l'amato tempo del passato, e i colori necessari per vivificare il suo presente.
Quando la moglie rimase incinta, aveva pregato per un figlio maschio, un piccolo ometto che lo accompagnasse nelle sue fantasie, a cui insegnare i misteri della notte ed il linguaggio silenzioso dell'acqua.
Ma quel mattino lo strillo tanto atteso fu quello di un'altra femmina, non volle vederla, strinse i pugni a trattenere la rabbia e indossando il suo solito cappotto si trascinò in fabbrica rimanendo muto alle domande insistenti dei suoi sfortunati compagni di vita.
Un giorno ne raccoglieva un altro.
Strada di sempre. Entrava dalla stessa porta macchiando qualsiasi cosa nelle sue vicinanze e la moglie lo seguiva con uno straccio, facendo smorfie fastidiose sul volto, ingrossando la sua ansia e la sua voglia di fuggire.
Per quanto tempo ancora sarebbe riuscito a far finta di non aver più desideri, di non avere più voglie, neanche quella più naturale di fare l'amore e di andare a ballare?
I suoi ricordi erano tutto ciò che aveva.
La sua insonnia rievocava l'antica voglia di vivere che come unica complice gli apriva la testa costringendolo a chiudere gli occhi. Lui ballava sui tavoli mentre i suoi amici allegri battevano le mani e poi la musica, quella musica!
Sorrideva, illuminato solo dalla luce dei lampioni che ferivano il buio della sua piccola casa.
La testa stretta tra le mani ancora sporche era diventata nel tempo così piccola, come una scatola a pressione pronta a scoppiare. I respiri delle piccole lo svegliavano sempre da ogni illusione. Quel tempo non sarebbe mai più tornato. Un giorno si svegliò così stanco da decidere di cambiare.
Indossò un abito pulito e in silenzio cominciò a dipingere.
La mano tracciò la sagoma di una donna con una testa di luna poggiata su un muro, come se dormisse. Tutto intorno una notte senza stelle sfumata solo da una luce naturale ma di grande intensità.
La più piccola delle figlie intanto piangeva, sua madre l'aveva immersa nella vasca e la strofinava per schiarirle la pelle. Voleva presentarla a suo marito come nuova, farla amare con il viso pulito, l'abito bianco e le scarpe lucide.
Quegli strilli gli fecero tremare le mani, sbagliò, uno scatto incise sulla tela un segno mostruoso, esasperandolo, facendogli perdere ogni controllo.
Cercò di calmarsi così si sedette su una sedia, chiuse gli occhi e si sforzò di ritornare al suo più bel ricordo: era sulla riva, una piccola radio che trasmetteva canzonette allegre, il sole gli arrossava con una carezza il volto e l'aria fresca gli entrava nelle narici mentre lo stomaco la seguiva.
Qualche minuto più tardi qualcuno alitava sul vetro della porta e delle piccole dita scrivevano messaggi, la sua bambina sorrideva, la si sentiva ridere.
Ricordava bene il suo sorriso, in un giorno di cui non ricordava più l'inizio, sua moglie lo chiamò per mostrargli una cosa. La sua bambina dormiva e sorrideva mentre sognava. Pensò solo che era bello perché anche se appena nata riusciva a ridere dei sogni! Spalancò la porta e la guardò negli occhi come se si stesse guardando in uno specchio.
- Perché piangevi?
- Perché non si insiste nel lucidare quello che è già pulito!
L'uomo nero sorrise divertito.
Quella bambina era già una donna, che sollevava pesi d'anima come si sciolgono fiocchi.
- Sai ballare?
- No!
- Allora sali sui miei piedi e tu comincia a cantare.
L'uomo nero è mio padre, e questo, il suo sogno migliore: il mio domani.

Info autore

Scritto da Miriam Carnimeo, marzo 2010
Il racconto appartiene alla sua legittima proprietaria, ed è stato pubblicato su Shiningarden per gentile concessione dell'autrice.
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